La fine di una società

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La fine di una società

Senza fare  nomi e cognomi…

Pur provando a tenderlo all’infinito, il velo pietoso non riuscirebbe a coprire le vergogne di un gruppetto di macabri personaggi travestiti da dirigenti. Nessuna scusa, nessuna pietà per l’ennesima, e ultima vergogna confezionata in un prezioso miscelatore di responsabilità rimpallate in un frullatore pieno di menzogne. Chiusi in sé stessi, persi in un modulo così inconcepibile da divenire sconcio se associato al concetto di sport più bello del mondo e di americana concezione, le controfigure della società che fu e che mai più tornerà, se affidata a tale incapace nomenclatura, ha così intrapreso il sentiero dell’Ade.

Quasi certamente solo Franz Kafka  potrebbe essere in grado di rappresentare una delle più ingarbugliate vicissitudini legate alla caduta in picchiata della società. Solo riproducendo quella paura radicata, oramai dominante nella nostra nazione, nell’attraversare quell’esile confine fra la ripetitiva e piatta abitudine ed il senso del ragionato rischio, è possibile, quantomeno spiegare il disastro che si è potuto compiere ove  non si possiede l’intelligenza e la capacità di comprendere come la novità da imprimere possa creare uno sviluppo rispetto alla precedente posizione assunta.

Ancora inzuppati nella dialettica fra il rispetto per il passato e la necessità di chiarire i fondamenti del presente, creando un corretto equilibrio fra passo lento e salto, fra procurata debacle e ambizioso e lodevole successo, si perde di vista l’unico fine per il quale la società è stata creata nella forma e nei modi, e di come invece si sia evoluta.

A ben esaminare la questione, ben più indicativa di qualunque caso di impunità meritocratica, non vi sarebbe alcun problema a cogliere la nuance di un problema legato a quel maniaco conservatorismo estremo che da anni impaluda e rimanda qualsiasi scelta radicale.

Puntare sull’attuale classe dirigente significa voler esaminare con miopia la realtà di chi non è più in grado di garantire uno sviluppo adeguato ad una società che rappresenta una città che, da una parte vorrebbe ergersi a protagonista nazionale ed esempio da imitare; dall’altra parte, non ha ben compreso come di ricordi non possa campare il giocatore comune e illuso da false promesse: quello della generazione zero, oggi annaspante nello stagno della precarietà, anche sportiva.

Abbiamo, purtroppo, più volte visto come nella società non sia stato premiato l’impegno e la capacità professionale di chi, ostinato e contro corrente, possedeva l’unica inoppugnabile colpa di essere sopra dimensionato per una realtà che non riusciva a garantire  l’accesso a campionati di pertinenza.

La colpevolezza, da suddividere secondo il solito, quanto approssimativo, principio maoista del “colpirne uno per educarne cento”, non dovrebbero ricadere sulla sola dirigenza, responsabile, senza alcun dubbio più che di disastrosa gestione del turnover di tecnici, e giocatori,  di assurda miopia nello scegliere dirigenti responsabili ad ogni livello.

La negligenza deve essere anche ripartita a tutti i soci che, nel tempo, non sono riusciti a modificare il triste andazzo, attraverso l’unica arma che la nobiltà teme: la rivoluzione!

Sono stati ignorati tutti i segnali che da più parti venivano lanciati tacciando di malafede, invidia e gelosia, persone che, il più delle volte, elargivano consigli.

Trovandosi nella scomoda situazione di chi, improvvisatosi agricoltore con un campo pieno di uccellacci  e con piantine non ancora resistenti come alberi, è chiamato a raccogliere i frutti di periodo anticipando i tempi, lunghi, della naturale maturazione, la società è caduta, come peraltro altre e ben note compagini nazionali, nel falso pensiero che potessero bastare i soldi piovuti dal cielo piuttosto che l’investimento nei piani e nelle persone capaci che una sana programmazione consente, a qualsiasi  saggio capofamiglia, di far passare il freddo inverno.

Puntare su validi responsabili di settori chiave quali quello del vivaio, del settore manageriale legato alle sponsorizzazioni, stampa, e pubbliche relazioni, in un contesto ben diverso da quello protezionistico e inquadrato, ovvero da quello che teme le novità soltanto perché apparentemente ingestibili, avrebbe dunque l’intrinseco fine di premiare chi, caparbio e anticonformista, ha dovuto inerpicarsi su gradini ben più alti del previsto per arrivare a difendere l’obiettivo ambito.

Il sogno di ogni atleta, il sogno di ogni lavoratore della mente o delle braccia, è quello di superare una serie di ostacoli per poi poter finalmente abbracciare quegli appagamenti necessari all’ego oltre che al borsellino, giustificando la sfilza di rinunce compiute.

Già, l’aspetto economico. Tutt’altro che secondario all’interno di una società che in virtù di una schizofrenica riservatezza ad esibire i bilanci, anche agli stessi soci e tesserati, consente, in anni di vacche grasse,  di spendere e spandere in ingaggi faraonici, salvo poi rinunciare a coltivare con i migliori istruttori i propri giocatori di talento causa l’inaccessibilità dei costi operativi.

Ma nella città dei conservatori a prescindere e della mancanza di meritocrazia, questa vicenda pare persino scivolare nel banale…

Roberto Cecchini

Autore: Roberto

Allenatore Nazionale

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